sabato 12 ottobre 2013

KOSOVO: LA FALSA NORMALIZZAZIONE

Il 3 novembre il Kosovo andrà alle urne per le elezioni amminisrative. E' il primo appuntamento con le urne dopo l'accordo del 19 aprile per la normalizzazione dei rapporti con la Serbia. Ma al di là delle relazioni con Belgrado e della questione della minoranza serba che non riconosce l'indipendenza, qual è la condizione del Kosovo oggi? Secondo il noto giornalista kosovaro Veton Surroj  la realtà è quella di uno stato incompiuto, corrotto e mafioso che fa il pari con una comunità internazionale complice e con l'illusione della normalizzazione dei rapporti con Belgrado. Un paese che, a più di cinque anni e mezzo dall'indipendenza, deve fronteggiare gravi minacce che ne mettono in pericolo la sicurezza, mentre il suo futuro è condizionato da una classe politica infiltrata dalla criminalità e dai cinque paesi membri dell'Unione Europea che non riconoscono la sua indipendenza.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente da Koha Ditore, il 29 settembre 2013. Quella che segue è la traduzione pubblicata da Osservatorio Balcani e Caucaso.



Il Kosovo deve far fronte a tre minacce, che mettono in pericolo la sicurezza del paese: la pseudo-supervisione da parte della comunità internazionale; il carattere incompiuto del processo di costruzione dello stato kosovaro e l'influenza crescente dell'islam politico, che si presenta come alternativa alla corruzione endemica dell'attuale classe politica.
E' quantomai evidente che le autorità kosovare non la pensino allo stesso modo. Il loro sguardo è differente ed è stato forgiato dalle esperienze vissute negli ultimi 15 anni. Queste esperienze dimostrano, innanzitutto, che il Kosovo rappresenterà sempre un problema geopolitico e quindi il tema del suo statuto dal punto di vista del diritto internazionale, in vista della sua adesione all'Onu, non verrà mai risolto.
Le istituzioni kosovare hanno anche compreso che la comunità internazionale è incapace di supervisionare il Kosovo, ma ha bisogno di far apparire una sembianza di normalità. Hanno compreso che le formazioni politiche in grado di garantire quest'apparente normalità divengono i partner privilegiati della comunità internazionale.

Né legalità, né legittimità

Giocando a questo gioco, le autorità kosovare possono permettersi di proclamare all'opinione pubblica che il Kosovo è un partner importante per l'Occidente per garantire la pace nei Balcani, e che entrerà prossimamente nell'Unione europea...
L'élite kosovara ha inoltre ottenuto l'aiuto di Catherine Ashton per dare credibilità a queste affermazioni. I negoziati con Belgrado sono stati definiti “storici” perché l'Alta rappresentante dell'Unione europea per la politica estera aveva bisogno di presentare il dialogo tra serbi e kosovari come un successo, il solo successo della politica estera da lei condotta.
Ma la nostra élite politica, che contribuisce a questa apparenza di normalità, non deriva la sua forza né dalla legalità né dalla legittimità. La sua forza reale si fonda su di una “struttura parallela” portata al potere attraverso la frode elettorale e grazie a grandi mezzi finanziari. Da 15 anni, il partito democratico del Kosovo (PDK) è uno stato nello stato. Il PDK è riuscito ormai a esercitare la sua influenza e controllare praticamente tutte le istituzioni dello stato, tra le quali anche quelle che dovrebbero essere indipendenti dall'influenza della politica.

Il mutismo della comunità internazionale

Durante gli ultimi 15 anni la comunità internazionale è rimasta in silenzio davanti a questa situazione e l'ha addirittura incoraggiata. A seguire due esempi.
Una delle prime decisioni della missione delle Nazioni Unite in Kosovo (Unmik) è stata la distribuzione della benzina alle aziende indicate dal capo del provvisorio governo kosovaro di allora, che altri non era che l'attuale primo ministro Hashim Thaçi.
Altro esempio: malgrado le frodi elettorali “su scala industriale” del 2010, l'Alta rappresentante Catherine Ashton non si è occupata della questione ed ha preferito depistare l'attenzione sui negoziati con la Serbia, senza mettere in dubbio la legittimità e la legalità dei dirigenti kosovari. Lo smembramento di queste “strutture parallele” del PDK è un processo difficile da intraprendere ma indispensabile per il futuro della democrazia in Kosovo.
Lo spreco di fondi pubblici a un livello senza precedenti anche per i Balcani, è stimato in centinaia di milioni di euro. Non è nell'interesse della nostra élite politica e dei gruppi mafiosi con i quali collabora di porre fine al modello attuale e di orientare il paese verso una democrazia funzionante. Ma questi abusi causano conseguenze irreparabili a lungo termine e indeboliscono le istituzioni dello stato.
Il carattere incompleto del processo di costruzione dello stato kosovaro continua ad essere un problema essenziale per la sicurezza del paese. Sino ad ora la parte settentrionale del paese, a maggioranza serba, è stata amministrata dai dirigenti locali grazie ad un accordo di fatto tra la comunità internazionale e la Serbia. Quest'accordo è simile a quello in vigore con gli albanesi: è volto a fornire una facciata di normalità.

Mancano quadri giuridici

Per Belgrado, anche a seguito degli Accordi di Bruxelles, il Kosovo rappresenta ancora “parte integrante della Serbia” e questa è di conseguenza la posizione ufficiale della Russia, della Cina e di un buon numero di altri paesi, tra i quali cinque membri dell'Unione europea. Per tutti questi la questione dello status del Kosovo è ancora in dubbio, anche dopo due anni di negoziati. E' stato sottoscritto un accordo, che però non fornisce un quadro giuridico all'interno del quale si normalizzino le relazioni. Inoltre gli Accordi di Bruxelles lasciano spazio all'interpretazione su molti dei suoi punti che riguardano gli attuali problemi tra la Serbia e il Kosovo.
Il Kosovo non è riuscito ad ottenere una vera e propria soluzione giuridica alle sue negoziazioni con la Serbia. Al contrario Pristina, Belgrado e Bruxelles hanno avviato un processo di frizioni politiche e di conflitto tra le istituzioni centrali del Kosovo e della Serbia. Si tratta infatti di un processo che ha come obiettivo di creare un'autonomia serba in seno al Kosovo, al di fuori del sistema giuridico e costituzionale attuale del Kosovo.
Il Kosovo è uno stato corrotto ed incompleto. Ha (mal) speso le sue magre risorse di bilancio senza creare nuova ricchezza. Peggio ancora, il Kosovo ha sperperato l'energia collettiva nata dal desiderio di liberazione che avevamo accumulato sino al 1999. Quell'energia che fa emergere un vero nazionalismo, che è l'unico a permettere di portare a termine un processo credibile di costruzione statale.

Islam politico

L’islam politico si sta infiltrando nella nostra vita politica, nella speranza di prendere il controllo di una parte del dibattito pubblico, delle istituzioni religiose e, nel lungo termine, delle istituzioni statali. Forze islamiste internazionali stanno facendo pressione sul mondo albanese, nella valle di Preševo, in Macedonia e in Kosovo. Nei territori quindi dove vi sono stati conflitti armati e dove la situazione politica è tutt'ora instabile.
Si può constatare il potenziale di questa minaccia guardando a cosa sta accadendo in Siria. Sino ad oggi almeno cinque albanesi della regione, due dei quali originari del Kosovo, sono stati uccisi in quel paese.
Queste tre minacce pesano su di un paese che non ha una chiara prospettiva europea. Gli altri paesi della regione hanno ormai partnership istituzionalizzate con l'UE, nel quadro degli Accordi di stabilizzazione e associazione (ASA) ma questo non è ancora il caso del Kosovo.
Malgrado ciò che viene dichiarato sia da Bruxelles che da Pristina, la natura delle relazioni tra l'UE e il Kosovo non è cambiata e non cambierà sino a quando i restanti 5 paesi dell'UE non riconosceranno il Kosovo.
Qualunque cosa faccia Pristina per implementare gli Accordi di Bruxelles, il Kosovo verrà preso per la gola per due problemi che sono alla base del suo malfunzionamento: è guidato da un'élite infiltrata dalla criminalità e i suoi rapporti con l'Europa sono dettati dalla posizione di quei cinque paesi membri dell'Unione che non riconoscono la legittimità della sua indipendenza.

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