domenica 13 ottobre 2013

GENERAZIONE GEZI PARK


Da FaiNotizia.It un ritratto della giovane generazione turca protagonista delle proteste di piazza di giugno e luglio contro il premier Recep Tayyip Erdoğan. Un video di Andrea Di Grazia, con la collaborazione con Ilknur Doganay, giornalista e traduttrice, Jenk K., pilota di droni telecomandati, e il fotografo Burac Baructu.
Realizzato dopo lo sgombero di Gezi Park, il documentario tratteggia l'immagine di un movimento nonviolento nato dal basso e diffusosi grazie ai social network e al semplice passaparola. I sei protagonisti spiegano (in lingua turca ed inglese con sottotitoli in italiano) origini e motivazioni del loro dissenso nei confronti della linea tradizionalista e repressiva adottata dal governo turco contro le proteste che ha provocato 4 morti durante gli scontri con la polizia, 8000 feriti ed oltre 5000 arresti, tra i quali anche quelli dei reporter italiani Daniele Stefanini e Mattia Cacciatori, liberati in seguito all'intervento dell'ambasciata italiana. Il racconto passa in rassegna l'idea di un'Europa che appare sempre più lontana e simbolo di modernità, di una democrazia saldamente ancorata alle tradizioni islamiche, le difficoltà ed i divieti imposti ai ragazzi in pubblico.

Guarda qui Gezi Park Generation




“NON SI TRATTA DI UN ALBERO, MA DELLA DEMOCRAZIA”.
Ovvero da piazza Taksim ad un diverso futuro possibile

La protesta che tra giugno e luglio è dilagata nelle strade della Turchia, e che ha avuto nella piazza Taksim di Istanbul il suo epicentro, è stata molto di più e molto altro che non gli scontri che abbiamo visto nelle cronache dei telegiornali. Dal Gezi Park alle città dell'Anatolia teatro di decine di manifestazioni, è sceso in piazza un popolo multiforme e colorato fatto di giovani, studenti, intellettuali, massaie, militanti politici autorganizzati, curdi, musulmani, atei, aleviti che con i loro cartelli, i loro slogan e nelle loro assemblee spontanee hanno cercato di proporre un'idea di libertà in cui progettare una nuova convivenza possibile.

Tutto è partito dalla decisione delle autorità di cancellare l'ultimo spazio verde del centro di Istanbul per costruire al suo posto un centro commerciale, appartamenti di lusso ed una moschea. All’inizio i manifestanti erano pochi. La notte del 31 maggio la polizia è intervenuta duramente attaccando i giovani che si trovavano nel parco e distruggendo l'accampamento. La repressione violenta di quella protesta pacifica ha fatto scattare la reazione: grazie ai social network e ai media indipendenti, la rivolta è dilagata in decine di città di tutto il Paese, perfino nell’Anatolia da cui proviene quella nuova classe dirigente e imprenditoriale portata al potere da Erdogan e che in questi anni è stata il motore del successo economico turco.

La protesta non riguardava più solo gli alberi da salvare in un piccolo parco di Istanbul, ma ha espresso il malcontento verso un primo ministro e un governo accusati di metodi autoritari e repressivi. Nelle piazze è sceso un movimento spontaneo e trasversale, non riconducibile a nessuna etichetta politica o ideologica. Molti dei partecipanti non aveva mai preso parte ad alcuna manifestazione politica. Ed è apparso subito chiaro che “Taksim non era Tahrir”, che questa protesta non era affatto assimilabile alle “primavere arabe”. La Turchia è una democrazia, il premier Erdoğan è stato eletto per tre volte attraverso elezioni regolari e il movimento di Gezi Parkı non puntava alla caduta del governo. “Occupy Gezi Parkı” è diverso e peculiare anche rispetto a “Occupy Wall Street” e agli altri movimenti scesi in piazza in molti Paesi contro le misure adottate dai vari governi per far fronte alla crisi economica.

Sotto accusa era la politica di Erdoğan considerata autoritaria, moralistica e paternalistica, che fa sempre più riferimento ai princìpi religiosi e rappresenta un regressione rispetto ai principi di libertà e laicità su cui è stata fondata la Turchia moderna. Il movimento partito da Gezi Parkı, al contrario, proponeva un pensiero politico basato sul dialogo, che non rifiuta i diversi orientamenti ideologici e religiosi presenti nella società turca e proponeva una modalità di organizzazione e di partecipazione nuova rispetto a quella codificata fino ad oggi nel quadro politico turco così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi, anche dopo la prepotente ascesa dell'Akp. A Gezi Parkı vi erano luoghi di discussione e di confronto, spazi per la danza, la lettura, l'espressione artistica e per i bambini, proiezioni e concerti. Un'organizzazione libera e sperimentale, senza gerarchie prestabilite.

Ciò che si è coagulato al Gezi Parkı di Istanbul ed è poi dilagato nelle piazze di tante altre città è un malcontento che da anni cova nelle pieghe della parte più consapevole della società turca, di un Paese, cioè, che ha vissuto nell'ultimo decennio uno straordinario successo economico, ma che resta agli ultimi posti della classifiche mondiali sulla libertà di espressione e in cui la forte coscienza nazionale viene declinata da tutti i principali partiti in un nazionalismo intollerante usato come arma per controllare le minoranze e ostacolare il dissenso. Il malessere è esploso per la difesa di qualche centinaio di alberi, ma ciò che è in gioco, in realtà, è il futuro della democrazia turca e la speranze di una generazione che chiede libertà di parola, di religione, di pensiero e di scelte di vita e un pieno rispetto dei diritti umani e civili. La protesta è ferma, per ora, ma il malcontento è sempre tutto lì. [RS]


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